E Dio suonò il sax
Poi la svolta. L’arrivo delle chitarre elettriche, della batteria e i suoi tempi in quattro, il sax, i fiati, le grandi voci bianche: il sessantotto della musica passa per pentagrammi che alla protesta aggiungono calore, desiderio di Dio, afflato mistico.
Una storia e una musica che percorre il mondo. Un viaggio a ritroso alla ricerca del profumo di Dio nascosto nel pentagramma.
Viva l’America ribelle
A cominciare dalla conversione di Bob Dylan, il menestrello “on the road” di un’America ribelle, pacifista, antimilitarista, l’America dei diritti civili e sociali rivendicati a suon di musica. Una sorta di folgorazione, quella di Bob Dylan, nei confronti di Gesù. Siamo a cavallo tra il 1978 e il 1981, e il poeta del rock la definisce «un’esperienza di rinascita, quando la gloria del Signore mi ha vinto e mi ha innalzato». Entra nella chiesa evangelica Vineyard Fellowship, dove riceve il sacramento del battesimo e frequenta un corso di studi biblici. E soprattutto sforna tre album, la cosiddetta trilogia cristiana: Slow Train Coming (1979), Saved (1980) e Shot of Love (1981). Per il mondo del rock di allora è quasi una bestemmia. Lo scrittore Steve Turner chiarisce i termini della contesa: «Niente garantisce più disprezzo nei circoli rock ‘n’ roll che abbracciare la fede in Cristo. Voglio dire, paghiamo questi ragazzi per visitare l’inferno e riportarci le diapositive a colori, e qui vanno a scivolare in cielo. È una grave violazione del contratto». Ma Dylan ci crede davvero. Al concerto di Albuquerque (New Messico), il 5 dicembre del 1979, davanti a una folla incuriosita, non si fa pregare: «Vi dissi: “I tempi stanno per cambiare” e così è stato. Vi dissi che la risposta stava “Soffiando nel vento” e così è stato. Ora vi sto dicendo che Gesù sta per tornare, e così sarà! E non esiste altra via di salvezza. Lo so che qui intorno avete un sacco di persone che vi confondono in mille modi tanto che non sapete nemmeno a cosa credere. C’è solo un modo per credere: c’è solo la Via, la Verità e la Vita. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, spero per voi che ve ne serva molto meno».
Anche Ben Harper è preso dal trascendente. Un misto tra Bob Dylan, Bob Marley e Jimi Hendrix. Radici black, blues, jazz, rap. La grande tradizione “bianca” dell’America verace insieme alla tradizione folk di Woody Guthrie. Ben Harper mette insieme riflessione spirituale e dimensione sociale. L’unica via per rendere più felice il mondo è la pace interiore dell’uomo. Così, nel 2004, ci regala un album straordinario, There will be a light, il sesto disco da studio realizzato con i Blind boys of Alabama, un collettivo di cantanti ultraottantenni per di più non proprio in brillante forma fisica – tipo i cubani di Buena Vista Social Club – che imprimono però al rocker californiano l’energia vitale del “rock black”, il blues delle campagne e delle Alleluja ritrovate. Un miracolo. Undici canzoni e trentotto minuti in cui Harper celebra il suo sentimento religioso, cantando il rapporto con Dio e l’aldilà. Canzoni da mandare giù come un buon singol malt scozzese, tipo Mother Pray, un puro gospel, eseguito a cappella. Tre minuti da brividi.
Al concerto del 20 luglio 2015 alla Cavea dell’Auditorium a Roma, Ben Harper se la prende con l'anticlericalismo del pubblico. A un certo punto, dopo avere cantato Power of the Gospel, “La forza della Parola di Dio”, racconta della sua visita alla Cappella Sistina. Qualcuno, dal pubblico, fischia. Ben Harper non si perde d’animo, e risponde: «Ci sono persone che non credono in Dio così tanto che di questo non credere ne fanno un altro Dio, una vera e propria fede. Io credo invece che una brezza dolce che ti carezza il volto viene da qualche parte. Io credo che quando facciamo qualcosa anche solo un minimo migliore di come siamo noi normalmente, è grazie a questa spinta misteriosa, a questo calcio nel sedere». E subito dopo, via con Where could I go (but to the Lord), “Dove potrei andare (se non dal Signore)”. Durante l’ultima strofa canta a voce nuda, lasciando il microfono dietro di sé, per far sentire al pubblico la purezza della sua fede.
Dalle praterie irlandesi al rock della U.S. Route 66
All’America tradizionale bianca e ai folksingers risponde in poco tempo il successo mondiale della musica anglosassone. Gli irlandesi U2 con il cantante Bono Vox diventano la voce del rock europeo che non ha paura dei grandi palchi, e delle scommesse umanitarie come la fame nel mondo. Impegno sociale e rock ai primi posti in classifica. Agli irlandesi non toccare Dio, perché la prenderebbero male. Non si possono dimenticare canzoni come Gloria, Tomorrow, With a shout (Jerusalem), nell’album October, 40, cioè la versione musicata del Salmo 40, e poi l’album The Joshua Tree, e ancora Rattle and Hum e All That You Can’t Leave Behind.
Bono conosce bene la Bibbia. Nel 1999 scrive la prefazione a una nuova traduzione dei Salmi, definendo re Davide come uno dei primi artisti blues. «Il Salterio– scrive Bono – può essere una fonte di musica gospel, ma per me è disperazione poiché il salmista rivela davvero la natura del suo rapporto speciale con Dio. L’onestà, persino nella rabbia». Un amore senza confini che si ritrova nella musica della band irlandese: «Parole e musica hanno fatto per me quella solida, e anche rigorosa, discussione religiosa che non avrei mai potuto fare – loro mi hanno introdotto a Dio, non nella fede in Dio, ma nel più empirico senso di Dio». Per Bono i salmi sono pieni di potenti emozioni, perché vengono molto prima delle chitarre, degli amplificatori.
Dalle praterie irlandesi al rock della U.S. Route 66, la strada della letteratura (e della musica) americana. È la voce del più grande rocker di tutti i tempi, Bruce Springsteen, a scompigliare i confini del pop, del folk e del country-blues. Un Gesù a modo suo, ma presente. «A volte mi sento come un cattolico in fuga, ma… – così il boss si confessa a Famiglia Cristiana in un’intervista del maggio 2013 –. Se sei cattolico lo resti per sempre. E non potrebbe essere altrimenti, se fin da bambino sei abituato ad ascoltare preghiere. E poi, nei miei brani, c’è tanta Bibbia, tanto Vecchio Testamento». La salvezza non può sempre arrivare dagli uomini, evidente in Darkness on the Edge of Town (1978), dove afferma «sono un uomo e credo in una terra promessa», mentre in The River (1980), si spinge a una sorta di preghiera: «E vorrei che Dio mi mandasse una parola, mi mandasse qualcosa da aver paura di perdere». Insomma, la terra che guarda al cielo. Dopo l’uscita di Tunnel of Love, nel 1987, la rivista Rolling Stone sottolinea che può essere «chiaramente percepita l’educazione cattolica ricevuta da Springsteen; i protagonisti pregano ripetutamente di essere liberati dal male, le storie d’amore sono presentate come una manifestazione della grazia divina». Fino a The Rising (2002), quando, riferendosi alla tragedia delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, canta in My City of Ruins queste parole: «Avanti, sorgi! Con queste mani, prego Signore, prego per la forza, Signore, con queste mani, prego per la fede, Signore, preghiamo per il tuo amore, Signore, preghiamo per i perduti, Signore, preghiamo per questo mondo, Signore, preghiamo per la forza».
Il diavolo e l’acqua santa
Così il rock ribelle abbraccia la spiritualità cristiana e non la nasconde più. Papa Giovanni Paolo II lo capisce prima di tutti e inizia un’opera di corteggiamento con i migliori artisti rock del mondo, che non si negano. Piazza San Pietro diviene l’alter ego della musica sacra e ciò fa storcere il naso a più di qualche monsignore vecchio stampo. Ma ha ragione il papa polacco. Gli artisti si sentono lusingati dal corteggiamento. E il pop d’autore vive giorni di grande splendore, con i concerti davanti al Papa ma anche in diretta tv mondiale.
Il rock prende altre strade, oltrepassa gli oceani, mette su tenda in lande deserte e lontane, ma è pur sempre buon rock, e pop raffinato. L’occidente cristiano è il capofila di questa migrazione sentimentale e musicale. I dialetti e le lingue si fondono in un’unica e grande armonia, le chitarre lasciano il posto all’arpa celtica, le cornamuse scozzesi, la Gaita galiziana, il mandolino e la zampogna italiani.
Se gli irlandesi U2 regalano al mondo canzoni stupende, anche i cugini celti, scozzesi, bretoni e galiziani, come i Clannad, The Capercaillie, Enya, Alan Stivell, The Chieftains, non sono da meno. Le strade percorse stavolta non sono più quella della mitica Route 66. C’è il Cammino di Santiago de Compostela. C’è la festa e il ritmo del flamenco, la musica dei gitani che rendono il virtuosismo chitarristico un’incessante e prolungata preghiera al Dio della vita, dei poveri e degli abbandonati. Anche qui una terra e un mare: la Camargue e la festa dei gitani a Saintes Maris de la Mer, senza dimenticare la Semana Santa di Siviglia. Dio dimora nel viaggio, nel pellegrinaggio spirituale carico di melodie ancestrali e bellissime, dove il richiamo al Signore è in ogni nota, ogni sussurro ritmico, ogni armonia terrena.
Anche il jazz si confonde con le note del cielo. Pat Metheny, l’artista statunitense che più di tutti ha letteralmente accompagnato il jazz d’autore al successo di pubblico, compone Psalm 121. E il sassofonista norvegese Jan Garbarek, con il suo sax dai toni lirici profondi e intensi, e l’aiuto dell’Hilliard Ensemble, consegna al mondo una perla di rara percezione mistica e sensoriale come Officium. Officium andrebbe studiato a scuola, ascoltato prima di pranzare o cenare. È una preghiera dove si respira realmente il soffio di Dio: i quattro cantori dell’Hilliard Ensemble dialogano con il sax di Garbarek, come se fosse diventato un quinto corista. Registrato al monastero di Saint Gerold in Germania dal guru della musica contemporanea, Manfred Eicher, fondatore della ECM, le litanie antiche e il canto gregoriano dialogano con le tonalità jazz del sax di Garbarek, in un ascolto onirico-sensoriale che mette in contatto i sensi con l’aldilà. Vendutissimo, ovviamente.
E in Italia?
Andando indietro nel tempo, Adriano Celentano ha fatto scuola, con il suo innamoramento, sbandierato in tv e nei dischi, di Gesù. Tre canzoni su tutte: Il forestiero, tratta dal celebre episodio del Vangelo di Giovanni tra Gesù e la samaritana, Chi era lui, e la famosissima Pregherò.
Ma anche Angelo Branduardi, il menestrello “green” che non ha mai nascosto di essere interessato alla fede. Una poetica discreta, gentile, appassionata, e una musicalità che ha messo insieme classico, pop e antico. Stati buoni se potete, è la colonna sonora incisa per il film di Luigi Magni sulla vita di San Filippo Neri, mentre l’album L’infinitamente piccolo, dedicato a San Francesco d’Assisi, diventa presto un successo internazionale. Nel 2019 Branduardi pubblica Il cammino dell’anima, stimolato dall’opera della mistica tedesca Ildegarda von Biden, e a fine 2020, ancora un altro album con un pezzo, Kyrie Eleison, (Signore abbi pietà), preso e riarrangiato dalla Missa Luba africana.
Tra nuovi cieli e nuove terre si è mosso per tutta la sua straordinaria carriera artistica Franco Battiato, innamorato della meditazione e di tutte quelle correnti mistiche-trascendentali sviluppate principalmente nel Medio Oriente, per finire alla Buona Novella di Fabrizio de André, dove il confronto personale con Gesù il Nazareno e Maria si nutre di rispetto e dialogo.
La musica va, dunque. Arrivando dove spesso la fede fatica ad arrivare. Valicando confini e superando ponti. Un miracolo, a vederla dalla parte dei credenti. Una prova dell’esistenza di Dio, a vederla invece dalla parte dei musicisti, anche agnostici o atei. Perché il pentagramma che guarda all’insù è ancora oggi l’arma segreta degli innamorati di un cielo e una terra che non ha paura di rendere il mondo migliore di quello che è.
Box 1
Alle radici del cielo
All’inizio fu il gospel. I salmi impregnati dai problemi di una vita difficile che diventano le nuove frontiere della musica moderna. I campi di cotone e la libertà del popolo nero cantati alla luce del sole. Qualche nome? Odetta, una delle migliori folk-singer e cantanti blues dei primi tempi, ma anche la regina degli spirituals, Mahalia Jackson. Il fuoco del gospel varca i confini del pubblico “bianco”. E pure la celebre Amazing Grace viene interpretata da una big della musica soul, Aretha Franklin, per poi essere suonata al sax magistralmente da David Murray nel suo album Spiritual. Poi largo al jazz. La tromba di Louis Armstrong (chi non ricorda When the Saints go marchin’in), Duke Ellington, con i suoi Concert of Sacred Music, Second Sacred Concert, e Third Sacred Concert, grande musica jazz, molto swing, lontano dalle atmosfere del gospel. I canti del popolo nero avevano vinto la battaglia. E la musica nera conquistava i locali fumosi dell’America bianca, per un’altra storia.
Box 2
La messa cantata del popolo nero
Un intero disco dedicato al popolo nero. Accade nel 1982, quando il musicista brasiliano Milton Nascimento registra un album con dom Pedro Casaldàliga e il poeta Pedro Tierra dal titolo Missa dos Quilombos. Il razzismo, la schiavitù, i diritti dei campesinos provati duramente dai regimi dittatoriali del continente latino-americano. Ma anche una messa con una sensibilità ecumenica che potesse essere celebrata in comunione con il popolo indigeno e la spiritualità africana. È lo stesso Milton Nascimento a spiegare il senso del disco: «Questo disco è stato il risultato della volontà di dom Helder Câmara, che ha messo in contatto dom Pedro Casaldáliga con me e Fernando Brant. Missa dos Quilombos è l’unione tra neri, poveri, indios, lavoratori e minoranze del Brasile. La nostra intenzione era quella di dar vita a una riflessione. Abbiamo registrato un disco e abbiamo fatto diversi concerti importanti per la causa. Uno di questi, molto speciale, si è tenuto in Spagna, a Santiago de Compostela. Ancora oggi le persone ricordano questo disco».
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